Aristide Bava
SIDERNO – E’ certamente il giornalista che ha avuto modo di stare maggiormente a contatto con il Papa. E per la verità non solo con Papa Francesco, perchè ormai da circa 40 anni è il vaticanista piu’ apprezzato della televisione italiana. La nostra intervista con Enzo Romeo , nella “sua” Siderno per un breve periodo di riposo, comincia proprio con una prima curiosità
– Quanti papi hai avuto modo di seguire?
Ho iniziato con Giovanni Paolo II, verso la fine degli Anni Ottanta. Wojtyla allora era ancora un uomo vigoroso e ci voleva grande energia per stare al suo passo e raccontarne il pontificato, specie durante i viaggi. Poi sono venuti Benedetto XVI e Francesco, con due conclavi molto diversi tra loro.
– Quale papa ti ha colpito di più e perché?
Direi che almeno da Pio IX in poi la Chiesa ha avuto grandi figure di papi. I tre ultimi non fanno eccezione. Certamente Giovanni Paolo II, non foss’altro per la durata del suo pontificato, è quello che rimane di più nell’immaginario collettivo e anche nel mio personale. Ha dato un contributo decisivo alla caduta dei muri tra Est e Ovest ed ha accompagnato la Chiesa e l’umanità al passaggio nel terzo millennio. Ma anche Ratzinger e Bergoglio hanno offerto e offrono enormi spunti a noi giornalisti. Basti pensare alle dimissioni di Benedetto XVI, un gesto che ha un solo precedente nella storia. Oppure alla battaglia contro le ingiustizie sociali e in difesa dell’ambiente che sta compiendo Francesco, divenuto un punto di riferimento mondiale anche in questo periodo drammatico segnato dalla pandemia. Concordo con chi ha affermato che Giovanni Paolo II è stato un papa “da vedere”, ovvero il primo pontefice mediatico, capace di comunicare con i suoi gesti attraverso i moderni mezzi di trasmissione; che Benedetto XVI, fine teologo, è stato soprattutto un papa “da leggere”; e che ora Francesco è per così dire un papa “da toccare”, nel senso che esprime anche con i suoi abbracci grande vicinanza alla gente, in particolare agli ultimi e agli emarginati.
– Qualche particolare significativo?
Ho tanti ricordi. Giovanni Paolo II aveva un carisma enorme, e riempiva con la sua personalità e la sua carica interiore i luoghi in cui si recava. Allo stesso tempo era molto informale nei rapporti. A noi giornalisti al seguito ci permetteva di porgli qualunque domanda. Scherzando potrei dire che forse anche per questo è stato proclamato santo… Una volta, alla fine di gennaio del 1998, mentre stavamo volando da Roma all’Avana, lo vidi molto abbottonato nelle risposte: era la prima volta che un papa si recava a Cuba, superando le diffidenze del regime comunista di Fidel Castro, e per questo Wojtyla parlava con prudenza. Quasi al congedo, con un po’ di faccia tosta e sapendo di provocarlo, gli chiesi: «Santità, come conciliare la rivoluzione di Cristo con la rivoluzione di Castro?». Il papa polacco, fino a quel momento molto diplomatico, non si trattenne. Troppo forte fu il “richiamo della foresta”, contenuto nella cacofonia linguistica di Cristo e di Castro. «La rivoluzione di Cristo», tuonò, «è la rivoluzione dell’amore, l’altra è una rivoluzione di morte!». Ci guardammo tra colleghi strabuzzando gli occhi. Nessuno si aspettava parole così nette a poche ore da quella storica visita. Il giorno dopo la sua risposta era sui giornali e le tv di tutto il mondo, ma l’episodio non smorzò il calore dell’incontro tra il capo della Chiesa e il lider maximo. Si condanna il peccato, non il peccatore…
Di Ratzinger ho ben presente il garbo, la modestia e la riservatezza. Doti non comuni per un uomo del suo livello culturale e spirituale. La prima volta che lo intervistai, durante il lungo periodo in cui esercitò il ruolo di prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, fu di una disponibilità disarmante. Il suo segretario se ne accorse troppo tardi: «Ci sono decine di suoi colleghi che hanno fatto richiesta per intervistare sua eminenza e che attendono da tempo!». Avrebbe voluto rimproverare il suo capo per la troppa generosità, ma naturalmente non poté farlo…
Infine Francesco. Una curiosità fra le tante: un’associazione di ferrovieri di Reggio Calabria mi incaricò lo scorso anno di consegnargli in dono un cronometro da capostazione. Io gli dissi: «Santità, è l’ora per lei di tornare in Calabria!». Rispose: «Eh! Lì da voi c’è troppo peperoncino!». Ma, battute a parte, questo papa non si dimentica del Sud Italia. Durante il lockdown, ad esempio, ha inviato materiale sanitario agli ospedali di Napoli e di Locri.
– Un tuo giudizio specifico su papa Francesco?
È il papa richiesto dai tempi che viviamo. Per certi versi un pontefice di rottura, che costringe la Chiesa a prendere strade nuove. Un uomo come Bergoglio poteva essere eletto solo in un conclave inedito come fu quello del 2013, dove i cardinali non hanno dovuto sostituire un pontefice defunto, bensì uno che aveva lasciato volontariamente il timone della barca di Pietro, in quel momento sballottata tra i marosi della cosiddetta Vatileaks, con scandali e inchieste giudiziarie. Francesco è un vescovo che parla con le parole del Vangelo, proposto sine glossa, senza edulcorazioni di sorta. E il Vangelo è sale, non zucchero; è una buona novella, ma scomoda, perché impone di uscire dalle nostre sicurezze e metterci in discussione. Esattamente quello di cui c’è bisogno oggi, in un mondo ferito dallo sfruttamento cieco delle risorse e ora dalla minaccia del Covid. Dispiace che all’interno della Chiesa ci sia chi remi contro Francesco, ma d’altra parte non è facile da digerire lo sforzo che questo papa richiede ai pastori, al clero, ai religiosi e alle religiose, fino ai fedeli laici. Vuole che vescovi e preti non siano degli impiegati del sacro, ma missionari coraggiosi della Chiesa «in uscita», che si fa «ospedale da campo» e che si piega su tutti coloro che hanno bisogno di un aiuto, spirituale e materiale.